Alternanza Scuola Lavoro: peccato perderne il senso.

Alternanza Scuola Lavoro
Alternanza Scuola Lavoro

Ieri sul nostro quotidiano locale (Gazzetta di Parma) è comparso un titolo forse un po’ provocatorio ma emblematico di un sentimento che attraversa una parte della scuola italiana (soprattuto i licei): “Alternanza Scuola Lavoro: bocciata al Romagnosi”. Nell’articolo leggo che gli studenti e le studentesse di uno dei due licei classici cittadini “non trovano corrispondenza tra l’esperienza lavorativa (svolta, nda) e il corso di studi.”

Devo confessare che, viste le mie perplessità iniziali – e di altro ordine sul sistema dell’alternanza – non avrei mai immaginato di ergermi a scudiero di questa peculiare esperienza per difenderla dai suoi detrattori.

Da qualche mese nella mia scuola (con diversi indirizzi tecnici) sono uno dei due referenti dell’alternanza scuola lavoro: per questo ho dovuto lavorare sodo per comprenderne la normativa , le relazioni che essa intreccia sul territorio e il senso pedagogico di una “novità” che coinvolge licei, istituti tecnici e professionali (anche se con monte ore differenti: per i licei è la metà rispetto agli altri insegnamenti). Sul tema mi sono scontrato con alcuni colleghi e confrontato con altri, ho parlato con studenti e studentesse: certo, ci sono “zone normative” perfettibili, percorsi che andrebbero aggiustati ma nessuno di loro, per fortuna aggiungo io, ha ancora “bocciato” senza appello un’esperienza iniziata appena due anni fa (diciamo pure appena nata, soprattutto per i licei).

Ho letto l’articolo della Gazzetta a mio padre: 86 anni, ex imprenditore, quinta elementare (ci tengo a dire che ha sempre studiato per conto suo la letteratura e la poesia e mi citava spesso alcuni canti dell’Inferno a memoria). Nelle due società che gli sono appartenute e che oggi non sono più di sua proprietà fanno esperienza di alternanza decine di ragazzi e ragazze del nostro territorio. Mi dice mio padre: “Strano che proprio un liceo classico rifiuti un’esperienza umana così avvincente come conoscere il mondo del lavoro, specchio della nostra società… strano che studino storia e non vogliano immergersi nella contemporaneità e nel nostro sistema economico e produttivo. So che quelli del liceo classico saranno, forse, le nostre future classi dirigenti: beh, allora a maggior ragione. Tanto più che il liceo classico non offre una specializzazione tecnica particolare ma piuttosto uno sguardo profondo e critico sulle cose: perché intestardirsi sulla ‘corrispondenza col corso di studi’, che per un liceo classico mi sembra quasi impossibile da trovare, visto che prima di lavorare faranno l’università?”

Certo, forse non basta il buon senso di mio padre per convincere studenti e studentesse (ma aggiungo soprattutto colleghi scettici) che questa esperienza non è riservata a un approfondimento tecnico ma è prima di tutto e semplicemente un’ “esperienza di vita” che collega l’“alto” con il “basso”, che dà modo ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze di immergersi in un mondo che potrebbero non vedere, non conoscere mai più. Ditemi voi a cosa serve la scuola: a conoscere il latino a menadito? L’Italia, voglio ricordare anche a me stesso, è una Repubblica fondata sul Lavoro: se questo la futura classe dirigente (che, è inutile negarlo, per ora viene sopratutto dai licei) non lo comprende, siamo messi male, molto male.

Infine diamo pure uno sguardo al senso pedagogico e al quadro normativo (italiano ed europeo) entro il quale questa esperienza è inserita. Certo, da un lato l’Europa ci chiede di incentivare l’osmosi tra scuola e impresa per aumentare l’occupabilità dei nostri giovani, ma dall’altro i pedagogisti di tutto il mondo si sono accorti che l’esperienza diretta della cose è una grande scuola, forse quella più grande: non so se dopo quindici giorni in una fabbrica le versioni di latino saranno migliorate, eppure sono pronto a scommettere che la qualità umana dei nostri ragazzi, la loro disponibilità all’essere cittadini e cittadine responsabili ne avrà guadagnato l’inimmaginabile.

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